CONFERENZA SUL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA - CATTEDRALE DI FERRARA, 17 FEBBRAIO 2016

Print Mail Pdf

papppp

Sono molto grato al vostro Arcivescovo, per l’invito che ha voluto rivolgermi a condividere con voi questo momento d’incontro, soprattutto perché esso è rivolto all’intero popolo di Dio. Molto spesso infatti, come potrete immaginare, capita di dover parlare agli “addetti ai lavori”, mentre è molto più bello, e ritengo anche oltremodo utile, questo invito aperto a tutti, per fare insieme un breve tratto di cammino.

Il Santo Padre Francesco, con la Bolla “Misericordiæ Vultus” ha indetto il Giubileo straordinario della Misericordia, affermando che, sia il mondo, sia la Chiesa, ne hanno bisogno. Ma cos’è, dal punto di vista storico, un Giubileo e quale senso può avere, oggi, indirlo ed essere chiamati a viverlo? Nell’epoca della tecno-scienza, ha ancora senso parlare di Giubileo e come esso si inserisce nella vita ordinaria delle persone?

Non è mia intenzione, in questa sede, ripercorrere le tappe storiche e teologiche del sorgere del Giubileo nella storia, in particolare nella tradizione vetero-testamentaria. Su questi dati è possibile per tutti informarsi. Tuttavia un dato ritengo di fondamentale importanza, perché, prescindendo da esso, non si comprende l’orizzonte del Giubileo, sia giudaico che cristiano. L’elemento per noi forse più dirompente dell’antico giubileo in Israele è quello che potremmo definire oggi “sociale”. I prigionieri venivano liberati, gli schiavi riacquistavano piena libertà, i terreni perduti a causa dei debiti venivano riconsegnati alle famiglie di origine, in un grande processo di normalizzazione sociale e di restituzione. E ciò avveniva ogni cinquant’anni, cioè, grosso modo, ad ogni generazione.

Come era possibile tutto questo? Come potevano convincersi i creditori a condonare il debito, i padroni a liberare gli schiavi, i proprietari a restituire le terre?

Ieri, come oggi, l’unico orizzonte possibile di interpretazione del Giubileo è quello della Fede. Senza Fede in Dio e senza un orizzonte soprannaturale, nel quale si compie una giustizia diversa da quella imperfetta degli uomini, il Giubileo rimane assolutamente incomprensibile, ed anche i suoi risvolti cosiddetti sociali, che il mondo tanto enfatizza, non hanno ragioni adeguate né per essere proposti, né per la loro tenuta nel tempo.

Pertanto l’indizione nel 2016 di un Giubileo straordinario, interpella innanzitutto la fede di ciascuno di noi: siamo davvero convinti dell’esistenza di Dio? Della Sua prossimità all’uomo e alla storia? Del fatto che Egli si sia fatto Uomo in Gesù Cristo, morto e risorto, e che la Sua presenza perduri nella storia attraverso il Corpo Mistico della Chiesa? Abbiamo conservato la certezza ragionevole della irriducibilità dell’uomo a materia, ai suoi antecedenti biologici, e, dunque, siamo convinti dell’immortalità dell’anima? Crediamo nella risurrezione della carne? Nella vita eterna dopo la morte corporale?

Per rispondere a tutte queste nostre domande, volutamente incalzanti, è sufficiente domandarci con quanta consapevolezza ed interiore partecipazione, ogni domenica, preghiamo il “Credo” nella Santa Messa, poiché tutte le domande che ho proposto trovano risposta compiuta nella ragione umana e nella fede soprannaturale rivelata da Dio agli uomini.

Il primo effetto, allora, del Giubileo è quello di un appello alla nostra fede, di un appello che ci giunge attraverso la voce del Successore di Pietro, che chiama tutti i cattolici, ma anche tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà, a riscoprire la fede, a – come direbbe il profeta – rendere «salde le ginocchia vacillanti» (Isaia 35,3b).

Qual è, tuttavia, l’essenza della fede? Come potremmo definirla? Certamente essa ha due dimensioni: una oggettiva – Fides quæ, la fede che crediamo – ed una più personale, che implica necessariamente il coinvolgimento della nostra libertà – Fides qua, la fede con cui crediamo –. È innegabile che, in questo nostro tempo, vittima di un esasperato soggettivismo, sia gnoseologico sia esistenziale, prevalga, talora perfino in alcuni ambienti teologici, la sottolineatura dell’elemento personale, ridotto perfino ad elemento soggettivo, che, in modo falso ed illusorio, ridurrebbe la possibilità della salvezza ad una generica apertura del cuore indipendente sia dalle azioni compiute, sia dalla Rivelazione oggettiva di Dio in Gesù Cristo.

Per comprendere l’essenza del Giubileo è necessario riscoprire il cattolico equilibrio tra le due dimensioni della fede. Non si dà reale esperienza di Chiesa prescindendo dalla automanifestazione piena di Dio in Gesù Cristo, da ciò che Egli ha detto e da ciò che Egli ha compiuto definitivamente. È quindi essenziale la dimensione oggettiva della fede, l’accoglienza dei contenuti di fede che Gesù ci ha rivelati. Basti un esempio per tutti: i due misteri fondamentali della nostra fede – l’Unità e Trinità di Dio e l’Incarnazione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo – sarebbero per noi del tutto inaccessibili se Dio stesso non ce li avesse rivelati nel Suo Figlio.

Parimenti tale oggettiva rivelazione, proprio per la natura relazionale di Dio e del Mistero dell’Incarnazione, domanda di essere accolta dalla libertà di ciascuno. Libertà che non è mai solo soggettiva, ma che preferisco definire libertà personale, perché il termine personale indica, in modo più esatto, la struttura relazionale di ciascuno e l’inseparabilità tra l’“io” e il “noi” credente. L’atto di fede è un giudizio sulla credibilità della Rivelazione di Cristo e della testimonianza di coloro che, per primi, lo hanno seguito; e tale giudizio si pronuncia personalmente nel “noi” della Chiesa.

In questo contesto il Santo Padre, nella Bolla di indizione del Giubileo, ci ricorda che la Misericordia è una categoria sintetica del cristianesimo e che essa ha il suo compimento nel Volto di Gesù Cristo. In effetti la radicale novità tra il “prima” e il “dopo” Cristo, cioè la radicale novità dell’Incarnazione, non è data tanto dalla domanda umana di perdono, né dalla possibilità che Dio possa perdonare; piuttosto dal fondamentale passaggio, per noi uomini, dalla speranza alla certezza di essere perdonati. Con Gesù Cristo il potere di perdonare i peccati, che appartiene solo a Dio, è “disceso sulla terra”, è soltanto con l’Incarnazione, con l’annuncio splendido e tremendo che Dio si è fatto Uomo, che ha voluto partecipare della nostra natura umana e vicenda storica, che il perdono è divenuto esperienza certa per gli uomini.

Lo scandalo dei farisei e dei dottori della Legge non cessa, dopo duemila anni, di riecheggiare, perfino in taluni nostri ambienti cristiani. Essi affermavano scandalizzati: «Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?» (Mc 2,7b). Il punto è ancora e sempre lo stesso, dopo duemila anni: accogliere o no l’identità di Gesù Cristo, accogliere o no l’automanifestazione che Egli fa di Sé come vero Dio e vero Uomo e che la Chiesa, da duemila anni, proclama al mondo.

Per la volontà stessa di Gesù Cristo, questo potere di perdonare i peccati, che, con Lui, è disceso sulla terra, viene trasmesso alla Chiesa e, in particolare, agli Apostoli: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23).  È, dunque, un gravissimo compito della Chiesa, degli Apostoli e dei loro successori, annunciare il Vangelo della Misericordia, amministrare il tesoro della Misericordia e guidare ogni anima fedele all’incontro sacramentale e riconciliatore con Dio.

Insieme all’obbedienza al “fate questo in memoria di me”, per il quale la Chiesa quotidianamente celebra il Sacrificio eucaristico, l’accoglienza del potere di rimettere i peccati e della responsabilità che ne deriva, rappresenta uno degli orizzonti fondamentali della vita e dell’esistenza stessa della Chiesa. Annunciare il Vangelo della Misericordia coincide, di fatto, con il far riecheggiare l’annuncio forte dell’inizio della predicazione di Gesù: «Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Conversione e fede, ortodossia e ortoprassi, retta fede e retto operare sono i binari su cui corre da duemila anni la vita della Chiesa e la testimonianza che essa nel mondo offre al suo Signore.

Crediamo davvero che con Cristo il potere di perdonare i peccati è sceso sulla terra ed è stato affidato alla Chiesa? Ci lasciamo colpire da questo annuncio forte e straordinario che, in modo del tutto imprevedibile, dà alla nostra vita «un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Benedetto XVI, DCE, 1)? L’annuncio della Misericordia è, infatti, la proclamazione definitiva che il male, qualunque male, non è l’ultima parola sull’uomo. Al contrario, l’ultima parola su tutte le brutture dell’uomo e della storia è: Misericordia!

È fuori dubbio che, prescindendo dall’orizzonte della fede, tutto questo ha poco significato ed il Sacramento della Riconciliazione può essere ridotto ad un funzionalismo estetico (“mi fa stare bene”), ad una seduta semi-psicologica (“dico di me, mi conosco di più”) o ad un “rito magico”, nel quale, fatto l’elenco dei peccati, si otterrebbe il perdono indipendentemente dalla volontà di conversione.

A tutto ciò si aggiunge una perdita del senso del peccato, sostituito laicamente e molto pericolosamente con un malinteso senso della legalità, per il quale sarebbe giusto “l’uomo che rispetta le leggi”, indipendentemente dalla bontà e dalla verità delle leggi stesse. La cronaca di questi giorni lo testimonia.

Non mi soffermo sull’analisi sociologica o teologica della perdita del senso del peccato, limitandomi a due sintetiche affermazioni: la perdita del senso del peccato è una conseguenza e non un presupposto della perdita della fede, della perdita del senso del sacro e del soprannaturale, e tale situazione non è casuale, ma è stata determinata da precise strategie ideologiche che hanno inteso dissolvere nel popolo il senso di Dio e del soprannaturale, attraverso la distruzione di ogni moralità, soprattutto in ambito affettivo.

Vivere il Giubileo coincide, allora, per un cattolico, con l’accostarsi in modo davvero maturo al Sacramento della Riconciliazione, presentando a Dio, attraverso il ministero della Chiesa, quelli che possono essere gli atteggiamenti fondamentalmente distorti della propria vita e gli atti liberamente e responsabilmente compiuti contro la Legge dell’Amore di Dio, del prossimo e del giusto amore di se stessi. Una buona confessione domanda, in tal senso, un previo momento di riflessione detto “esame della coscienza”, nel quale, oltre che pensare a cosa ci ha fatto star male (dimensione soggettiva), si guarda oggettivamente agli atti che sono stati compiuti non secondo il Vero e il Bene, non secondo la Volontà di Dio. I nostri atti, infatti, ci seguono, e – come insegna San Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor – è impossibile separare l’uomo dai propri atti, poiché ne verrebbe deturpata la dignità e la libertà.

Ad un buon esame di coscienza segue, nella confessione, la cosiddetta accusa, cioè il riconoscimento da parte del penitente dei propri peccati. È interessante notare come il Sacramento della Riconciliazione sia l’unico tribunale al mondo nel quale un reo confesso viene assolto, anzi, nel quale l’essere reo confesso è la condizione indispensabile per essere assolti. Quale è la ragione di tale disposizione? Perché l’accusa deve essere integra, cioè completa, nel tipo di peccato, nel numero di volte che lo si è commesso e nelle circostanze in cui lo si è commesso? La risposta a tale domanda è semplicemente rappresentata dall’esigenza, nel rapporto della riconciliazione con Dio, di abbandonarsi totalmente a Lui. Una Confessione parziale o, peggio, una menzogna nel Sacramento, rivelerebbe una non volontà di autentica relazione con Dio, una non volontà di autentico abbandono a Lui. La Chiesa ha ben compreso sin dall’inizio tale esigenza ed ha stabilito, nel compito che Dio le ha dato di fissare la forma dei Sacramenti, non solo che ciò che non è confessato non è assolto, il che sarebbe già grave, ma che la consapevole e libera omissione di un peccato mortale, volontariamente taciuto, rende nulla l’intera Confessione. Perché? Perché viene a mancare quell’elemento essenziale che è il pentimento, ovvero il dolore per il peccato compiuto e l’umile riconoscimento del male vissuto, al quale si è acconsentito. L’accusa integra dei peccati ha anche un profondo valore liberante, essa infatti coincide con l’esperienza di essere profondamente amati in modo integrale, di essere amati anche in quelle zone oscure del proprio io, nelle quali non si penserebbe di essere amabili e che tendenzialmente si cerca di rimuovere.

Gesù Cristo salva l’uomo, salva tutto l’uomo e salva tutto dell’uomo. Se soltanto noi siamo capaci di consegnarGli tutto di noi, anche il nostro peccato, in maniera totale, Egli fa penetrare la Sua luce risanante nelle nostre coscienze e riscalda i nostri cuori con il Suo amore capace di trasfigurare.

L’accusa integra deve essere accompagnata dal proposito di non peccare più. Esso coincide con la volontà attuale (cioè la volontà nel momento della Confessione) di non commettere nuovamente i peccati mortali che si sono confessati. Si tratta di un proposito e non di una promessa, poiché l’uomo, nella sua fragilità, non può promettere a Dio di non peccare più, sarebbe una promessa menzognera e destinata a fallire. Tuttavia la nostra intelligenza e libertà, benché ferita dal peccato originale, possono formulare un autentico proposito, possono porsi l’obiettivo di non commettere nuovamente i medesimi atti e, come saggiamente recita l’atto di dolore, «fuggire le occasioni prossime di peccato».

Appare chiaro come, analogamente all’integrità della Confessione, anche il fermo proposito di non ricommettere i medesimi atti sia indispensabile per ottenere il perdono. Che senso avrebbe domandare perdono per qualcosa che si ha già in animo di ricommettere? Che senso avrebbe chiedere perdono per un furto quando si ha già l’appuntamento con il complice per compierne un altro? Che senso avrebbe chiedere perdono per un adulterio quando in agenda è già fissato il nuovo appuntamento con l’amante?

In assenza del proposito di non peccare più, il sacerdote è semplicemente impossibilitato a dare l’assoluzione. E qui non si tratta di sacerdoti “larghi o stretti di manica”, ma semplicemente dell’assenza di uno degli elementi fondamentali della Riconciliazione sacramentale, mancando il quale sarebbe una menzogna la assoluzione e metterebbe in grave pericolo l’anima e la salvezza eterna del penitente, che potrebbe sentirsi legittimato a continuare nella propria condizione di peccato.

L’assoluzione, infine, è un vero e proprio atto di amore gratuito, nel quale Dio stesso, attraverso il ministero sacerdotale, slega, scioglie gli uomini dalle catene del male e del peccato. “Assoluzione” deriva, infatti, dal latino “ab-solutum”, che significa “slegato da”, e fa eco all’affermazione di San Giovanni, che dice: «chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8,34). Tale liberazione non è solo “spirituale” o “psicologica”, ma è sacramentale, cioè reale, ed appartiene al deposito della fede divina e rivelata credere che, ricevuta l’assoluzione dei propri peccati dopo una Confessione ben fatta, essi non esistono più, sono definitivamente distrutti, disintegrati, cancellati dalla mente di Dio e si riacquista, ogni volta, l’innocenza battesimale.

Solo una mancanza di memoria ed una profonda distrazione dal Mistero possono indurre a non gioire e a non desiderare profondamente la Riconciliazione sacramentale. La temperatura della fede di una comunità cristiana, la temperatura della fede della Chiesa tutta, si misura anche e sempre su questo: la fedeltà alla Riconciliazione e la fede e la devozione eucaristica.

***************

Nel Giubileo, ma non solo in esso, è data particolare rilevanza anche alle indulgenze. Al di la delle “leggende nere” che possono avvolgere questa realtà teologica, e non escludendo che in passato qualcuno l’abbia potuta male interpretare o strumentalizzare (ma ricordiamo che ogni epoca va giudicata secondo la mentalità degli uomini di quel tempo), l’indulgenza è la remissione di tutte le pene dovute per i peccati. Per comprendere adeguatamente tale concetto è necessario distinguere tra la colpa e la pena. La colpa è il peccato commesso in se stesso, e viene assolto dalla Riconciliazione sacramentale. La pena coincide con le conseguenze del peccato che, purtroppo, non sono cancellabili dalla assoluzione, per quanto magnanima e reale.

Ogni atto malvagio compiuto ha conseguenze su chi lo compie, su chi lo subisce, ha conseguenze ecclesiali sull’intero Corpo Mistico, rallentando l’avvento del Regno di Dio, ed ha conseguenze sociali, incrementando il male nel mondo.

Sempre nell’orizzonte soprannaturale ed eterno, di cui abbiamo parlato all’inizio di questa nostra conversazione, le pene dovute per i peccati vengono purificate, dopo la morte, in quello stato itinerante dell’anima che la dottrina ha chiamato “Purgatorio”. Santa Caterina da Genova, nelle sue mistiche visioni, ci ha lasciato una testimonianza straordinaria dell’esistenza e della funzione del Purgatorio, che è – non dimentichiamolo – uno stato di salvezza. Chi è in Purgatorio è salvo, è certamente salvo, e cammina verso la piena visione di Dio: noi giustamente delle anime purganti diciamo “le anime sante”.

L’indulgenza è la possibilità di essere liberati dalle pene dovute per i peccati, cioè dalla responsabilità per le conseguenze del male compiuto, attraverso il gesto magnanimo della Chiesa, la quale, attingendo dal tesoro infinito della Divina Misericordia, ha il potere di liberare non solo dalla colpa, ma anche dalla pena.

Ci sono modi molto semplici per ottenere quotidianamente l’indulgenza plenaria, che, proprio in forza della Comunione dei santi, può essere applicata una volta al giorno a se stessi o ad un fedele defunto. Penso al sostare per almeno trenta minuti in adorazione eucaristica, al recitare devotamente e comunitariamente il Santo Rosario, al visitare il Santissimo Sacramento in una Chiesa indulgenziata, … tutti modi semplici per rimanere stabilmente in rapporto con Dio, per, usando un’espressione giovannea, “rimanere in Lui”.

Proprio perché non rimanga una facile “conquista” di tipo meccanicistico, all’indulgenza è sempre legata un’opera, un atto da compiere che esprima visibilmente e storicamente la volontà di reale confessione e conversione del penitente: dalla preghiera al digiuno, dall’elemosina alle sette evangeliche opere di misericordia corporale e spirituale, la Chiesa ha sempre indicato l’opera, il libero gesto dell’uomo, come luogo nel quale, per eccellenza, far rifulgere la vita nuova che è stata riversata nei nostri cuori. Una vita nuova che, va ricordato, discende necessariamente dall’incontro con Cristo. La Chiesa, e con essa i cristiani, non si possono perdere in uno sterile attivismo smemorato delle ragioni ed appiattito sul vago filantropismo del mondo, che, in ultima analisi, schiaccia ed elimina i più deboli autocompiacendosi di una carità limitata. La Chiesa vive del “non sappia la tua destra ciò che fa la sinistra”, confidando nel fatto che Dio esiste e che Lui “che vede nel segreto” ti ricompenserà”. Appare talvolta piuttosto imbarazzante, ad una visione autenticamente evangelica, il contemporaneo “strombazzamento” di opere che la Chiesa compie indefessamente da duemila anni e che i mezzi di comunicazione sembrano aver scoperto da poco. Se “mettiamo la tromba davanti a noi abbiamo “già ricevuto la nostra riconoscenza”, nel plauso del mondo e nel lauto compiacimento che ne deriva.

Le autentiche opere di misericordia si compiono nella discrezione e nella fede profonda in Dio, il quale “vede nel segreto”. Questo rafforza la fede di chi compie l’opera e, con essa, cementa il rapporto con Dio. Da questo primato della fede discendono tutte le opere, le meravigliose opere che in venti secoli di storia gli uomini e le donne della fede hanno compiuto e compiono in ogni angolo di questo nostro mondo. Senza dimenticare che, in forza della comunione dei santi, le opere possono sfondare il limite del tempo e dello spazio ed investire, proprio attraverso l’indulgenza applicata per i nostri fratelli defunti, investire l’intera comunità dei credenti che hanno già varcato la soglia dell’ultimo giorno.

I gesti che siamo chiamati a compiere per ottenere l’indulgenza sono molto semplici, perché tutti li possano compiere senza grave incomodo, ma con autentica partecipazione. È necessario essere confessati negli otto giorni precedenti o successivi al gesto di carità che si intende compiere, al pellegrinaggio o al passaggio della Porta Santa; ricevere la Santa Comunione (evidentemente nella partecipazione alla Santa Messa), recitare il Credo, nel quale rifulge la fede della Chiesa ed è possibile vivere una felice sintesi tra la fede che crediamo e quella con cui crediamo ed infine è richiesto di pregare secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, proprio perché, nella fedeltà a Pietro, vicario di Cristo e capo visibile della Chiesa universale, si documenta la fedeltà all’unico Corpo che è la Chiesa, la quale vive nella storia da duemila anni senza interruzioni come un unico Corpo, sempre giovane, perché sempre chiamata ad un nuovo inizio, ad un rinnovato e vitale slancio di annuncio.

Nella Misericordiæ Vultus, la Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia, il Santo Padre Francesco indica il compimento delle opere di Misericordia, corporali e spirituali, come via per ottenere l’indulgenza, proprio perché in esse si documenta la fattualità e la storicità della conversione del fedele.

Pensiamo a quale grande bisogno c’è oggi, per esempio, di istruire gli ignoranti, soprattutto in materia di fede; di ammonire i peccatori, in un contesto morale che fa letteralmente rabbrividire sotto ogni aspetto e nel quale la corruzione economica e dei costumi pare non avere limite (anche se tutti si scandalizzano per la prima e pochi per la seconda!); che grande bisogno c’è di ospitare i forestieri, in una accoglienza che sia coniugata con la legalità e concordata a livello internazionale per evitare il collasso dei singoli Stati e la conseguente impossibilità a prestare aiuto; che grande conversione, ancora, per il Primo Mondo sazio e disperato (e forse ormai nemmeno più sazio!) imparare a dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati e a vestire gli ignudi del Terzo Mondo, sia nei loro paesi di origine sia quelli che sono tra di noi.

Il Giubileo, e in esso la chiamata ad una profonda riconciliazione ed il dono dell’indulgenza, ci chiamano ad una revisione dei nostri stili di vita, perché si mettano al primo posto Dio, i diritti di Dio e, con essi, per logica conseguenza, una maggiore giustizia nei confronti dei fratelli. È falso il convincimento per il quale eliminando Dio dalla società, dalle leggi e dalla coscienza degli uomini, migliorerebbe il mondo e si incrementerebbero la pace e la giustizia. Gli ultimi due secoli dimostrano clamorosamente che è esattamente il contrario, perché, come affermava il Santo Padre emerito Benedetto XVI: «la dove Dio viene negato, si dissolve la verità dell’uomo […]. Mentre chi difende Dio difende l’uomo» (Benedetto XVI, Auguri alla Curia Romana, 21 dicembre 2012).

In tutto questo percorso, e concludo, ci è di sostegno la Beata Vergine Maria, Madre di Misericordia, Rifugio di noi peccatori e nostra Potente Avvocata presso il Figlio Suo. È Lei il terzo elemento di verifica della nostra fede cattolica, accanto al Sacramento della Riconciliazione e alla fede eucaristica. Una semplice e schietta devozione mariana, un sincero amore alla nostra Mamma celeste, è la misura del compimento di ogni misericordia. La Beata Vergine Maria, nel canto del Magnificat afferma: «Di generazione in generazione la Sua misericordia si stende su quelli che lo temono» (Lc 1,50); siamo noi la generazione di cui parla la Vergine Santa e siamo noi coloro che temono Dio e che, per questo, ricevono umilmente la Sua Misericordia.

Questo è il mio augurio per il vostro Giubileo della Misericordia: che cresca in tutti la consapevolezza di essere il nuovo popolo di Dio, salvato dal Sangue dell’Agnello, che appartiene a Cristo e lo testimonia consapevolmente nel mondo e che, ad imitazione della Regina di ogni misericordia, vive permanentemente nell’umiltà e nel santo timore di Dio.

Grazie!

Stemma Card. Piacenza_small

CONTATTI

SEDE
Palazzo della Cancelleria
Piazza della Cancelleria, 1
00186 – Roma

 

INDIRIZZO POSTALE
Penitenzieria Apostolica
00120 – CITTÀ DEL VATICANO

 

RECAPITI TELEFONICI
Tel.: +39.06.69887526
Fax: +39.06.69887557