A SERVIZIO DELLA SUPREMA LEX

Prolusione di S.E. il Card. Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, in occasione del Dies Academicus della Facoltà di Diritto Canonico "S. Pio X" di Venezia (10 novembre 2021).

 

Venerato Patriarca,

Gentile Sig. Assessore,

Stimati Docenti e Studenti e carissimi Amici,

         Sono molto lieto di aprire con voi quest’Anno Accademico della Facoltà di Diritto Canonico del Marcianum, consapevole della preziosità del lavoro qui svolto dal corpo docente e dell’urgenza ecclesiale di giuristi preparati, dall’animo profondamente pastorale e dalla sollecitudine per l’autentico bene dei fedeli.

         Le circostanze nelle quali mi trovo a pronunciare questa prolusione sono quelle, a tutti ben note, dei recenti frontali attacchi ad alcuni pilastri costitutivi del ministero che Cristo ha affidato alla Sua Chiesa e, conseguentemente, dei mezzi attraverso i quali giunge agli uomini la salvezza da Lui ottenutaci. Come per ogni iceberg, ciò che emerge è solo un decimo della realtà; così anche nei recenti attacchi al sigillo sacramentale e, attraverso di esso, alla possibilità stessa che la salvezza giunga in modo sicuro ai fedeli – dobbiamo riconoscerlo con dolore –, non c’è che un decimo di tutto l’attacco in atto a Cristo, alla Sua Chiesa, all’opera salvifica che la Chiesa realizza e, in essa, perfino al Diritto Canonico, che, semplicemente ma necessariamente, norma l’agire ecclesiale e garantisce la libertà di tutti.

         Pensavamo si fosse esaurita l’infondata vena polemica che, negli anni Settanta del secolo scorso, contrappose, talora perfino con termini carichi di tensione, la dimensione giuridica a quella pastorale, auspicando una inesistente Chiesa senza diritto, tutta “pastorale”, irrealistica e soggetta a qualunque forma di arbitrio, incompatibile sia con l’umana struttura antropologica, sia con la necessaria carità evangelica. Ad un attento sguardo all’attuale temperie culturale, pare tuttavia ritrovare vigore una tale infondata contrapposizione, che si alimenta – diciamolo espressamente – di superficialità teologica e talvolta perfino di demagogia ideologica. Tante affermazioni che oggi vengono pronunciate come “profetiche”, a ben guardare, sono solo delle ripetizioni di quanto già superato da anni.

         La crisi del diritto – va riconosciuto – è anche extra-ecclesiale. Ne sono testimonianza il profluvio di norme, spesso contraddittorie, che sia in Italia sia nell’Unione Europea vengono continuamente emanate, e, a livello più accademico, la continua e, per certi aspetti, nuova ricerca dei giuristi, che si aprono alle scienze umane quali l’antropologia, la filosofia, la sociologia, la psicologia e la psichiatria, per contemperare visioni giuridistiche unilaterali e “quasi cercare” un fondamento al diritto, evidenziando, in tal modo, l’insufficienza di quell’auto-referenzialità giuridica, tipicamente contemporanea, che finisce per essere tautologica: la legge vale perché è legge!

         «Fra voi però non è così» (Mc 10,43), afferma Gesù nel Vangelo. Tra noi che ci occupiamo di Diritto Canonico, deve sempre essere chiaro – e sono certo che lo sia – il nostro essere al servizio dell’unica vera legge della Chiesa, quella che è definita nel canone 1752 la «lex suprema»: la salvezza delle anime. Al di là del linguaggio, antropologicamente sempre integrabile, il modo in cui la Chiesa ha scelto di concludere il Codice, che ne raccoglie le norme, è inequivocabilmente indice dell’orizzonte nel quale collocarsi nello studio, nella comprensione, nella formulazione e nell’applicazione del Diritto Canonico.

 

1. Suprema lex a garanzia del Diritto Canonico

         Tutto, nel Diritto Canonico, è, e deve essere relativo alla salvezza; cioè “in relazione” alla salvezza, sia dei singoli protagonisti delle varie vicende, sia della salvezza intesa come avvenimento di grazia, che riaccade nella storia attraverso il ministero ecclesiale.

         Se la via principe di questa ripresentazione sacramentale-ecclesiale dello stesso Gesù è data dall’annuncio della Parola e dalla celebrazione dei Sacramenti, tale ministero – ben lo sappiamo – non può essere esercitato in maniera arbitraria, ideologica o comunque astratta dal concreto vissuto ecclesiale e sociale delle persone. Esattamente per tale ragione, il diritto interviene, conformemente alla natura anche sociale del Corpo ecclesiale, sia a promuovere la necessaria opera di evangelizzazione per l’incontro degli uomini con Cristo e, dunque, per la loro salvezza, sia al servizio della necessaria garanzia comunionale, a livello veritativo e a livello morale, dell’annuncio cristiano.

         Questa seconda funzione, nella quale emerge un ruolo apparentemente più “negativo” o “di controllo”, è in realtà altrettanto essenziale come la prima; che ne sarebbe, infatti, di un annuncio infedele alla verità e non in comunione con la Chiesa? Oppure di una celebrazione dell’Avvenimento cristiano nel settenario sacramentale, che diventasse arbitraria e non conforme a ciò che la Chiesa intende celebrare, vivere ed attualizzare?

         Se la cosiddetta “svolta antropologica” – che in realtà è divenuta svolta antropocentrica esclusiva del riferimento trascendente al Creatore – può avere avuto alcuni elementi positivi nella riscoperta del ruolo centrale della libertà dell’uomo nel proprio cammino esistenziale e dell’uso della ragione come indispensabile strumento di penetrazione nella realtà, tuttavia essa si è rivelata, anche proprio nel rifiuto di ogni dimensione sanamente normativa, utopistica, irrealistica e, ultimamente, contro l’uomo stesso. Ne è la prova il moltiplicarsi, forse come mai nella storia, in questi ultimi tempi, di divieti spesso ingiustificati, di situazioni di controllo delle persone e della società che mai si sono realizzate nel passato con una tale capillarità, al servizio dei quali si è posta la più moderna tecnologia e dei cui sviluppi non abbiamo il controllo, ma ne intuiamo il rischio.

         A fronte di un diritto civile che ha smarrito il proprio fondamento o che non riesce ad andare oltre se stesso per trovarlo, il Diritto Canonico ha la forza di un orizzonte certo, perché dato, cioè ricevuto, e rappresentato innanzitutto dall’uomo stesso, con i suoi doveri e i suoi diritti, la sua intangibile dignità e la sua vocazione sociale, e, proprio attraverso una visione integrale dell’uomo, l’apertura al rapporto con Dio e l’accoglienza della salvezza.

         Prescindendo da un esplicito contesto di fede, è ovvio che il Diritto Canonico appare superfluo, non necessario, a taluni perfino dannoso per l’annuncio del Vangelo. Se è chiaro che le norme del Diritto si applicano ai fedeli cattolici di Rito latino o orientale, è altrettanto chiaro che, in un contesto sociale, nel quale la perdita della fede e di una chiara appartenenza ecclesiale pare aver investito la maggioranza delle persone, un tale servizio non è più di facile comprensione.

         Ad un livello più alto, dobbiamo riconoscere – e i recenti esempi dell’Australia e della Francia ne sono dolorosa testimonianza – che gli stessi Stati, avendo perso un chiaro riferimento trascendente, non sono più in grado di relazionarsi adeguatamente con la Chiesa e con il suo Diritto, pretendendo, in maniera infondata, che le norme, pur comprensibili, del diritto civile e penale siano superiori e cogenti anche per il Corpo ecclesiale e il Diritto Canonico.

         D’altro canto, dobbiamo positivamente riconoscere che questa situazione culturale e sociale dona al Diritto Canonico l’occasione straordinaria di mostrare al mondo la possibilità di un modo diverso, unico e sicuramente più intelligente e affascinante di interpretare la legge. In un contesto che vorrebbe, anche se illusoriamente, prestare la massima attenzione all’uomo e alle sue esigenze (ma che poi finisce per dimenticarsi dell’uomo, dopo essersi dimenticato di Dio), il Diritto Canonico è straordinariamente attento all’uomo e alle sue esigenze, intese in maniera piena, integrale, come esigenze di relazione, di unità e, ultimamente, di salvezza, di trascendenza. Quando noi parliamo di “salvezza”, ci riferiamo alla salvezza integrale della persona, di ogni suo aspetto e, anche se la formulazione parla di “salus animarum”, ben sappiamo che la salvezza è olistica, nulla censura, nulla tralascia, nulla esclude dal suo abbraccio misericordioso.

         Allora, se il Diritto è al servizio della salvezza, possiamo anche affermare che la salvezza è a garanzia del Diritto Canonico: l’orizzonte salvifico delle persone e della comunità, il loro autentico incontro con Cristo nella verità e nel bene, il loro permanere nella piena comunione ecclesiale, sono l’orizzonte del Diritto Canonico e ne rappresentano la garanzia di veridicità e di necessità. È così vero che, per quel paradosso tipicamente ecclesiale di cui Henri de Lubac è stato maestro, agire fuori dal Diritto o contro il Diritto indebolisce, e in taluni casi perfino vanifica, l’efficacia dell’atto di evangelizzazione. È come se – mi si perdoni l’ardire – fossimo chiamati a riconoscere, ancora e sempre, in maniera ovviamente analogica, un’indispensabile corrispondenza tra la salvezza delle anime, l’agire ecclesiale al servizio di essa e la carnalità, la finitezza, la necessaria, insuperabile finitezza del Diritto Canonico. Esso viene ad essere dunque l’abito che il Corpo di Cristo non può non indossare per potersi presentare al mondo, per potersi relazionare con le altre società “extra-ecclesiali” e per poter normare, alla luce del Vangelo e delle sue alte richieste, la stessa vita ecclesiale.

         Se, come recentemente sottolineato da vari interventi del Santo Padre Francesco, il rischio di «abusi di potere nel rapporto con le coscienze» è sempre possibile, immaginiamo cosa ne sarebbe, se non ci fosse la norma giuridica posta dalla Chiesa per sollecitare l’obbedienza degli uni e normare, limitandola, la responsabilità degli altri.

         Non a caso San Benedetto, nella sua mirabile Regola, ricorda sempre che il primo ad obbedire alla Regola, che è via di santificazione e di perfezione cristiana, deve essere l’abate; solo così sarà davvero padre, solo così sarà esemplare e potrà domandare e ottenere l’obbedienza dei suoi monaci.

         Lo stesso vale, ovviamente ad un livello diverso e più ampio, all’interno della Chiesa: l’obbedienza alla legge suprema della salvezza delle anime è garanzia di libertà e di responsabilità per tutti, dal Sommo Pontefice al più giovane dei battezzati, ed in questo continuo dialogo tra libertà e responsabilità, che non si contrappongono ma sono chiamate a crescere in armoniosa reciprocità, si colloca l’indispensabile funzione del Diritto Canonico.

 

2. Suprema lex: orizzonte ermeneutico del Diritto Canonico

         La salvezza delle anime, oltre ad essere fondamento e garanzia dell’esistenza stessa del Diritto Canonico, ne diviene, così, anche reale ed imprescindibile orizzonte ermeneutico. Questo riguarda sia la fase iniziale di formulazione delle leggi, sia la loro ricezione e prudente interpretazione, sia, infine, la loro necessaria applicazione.

         Il gravissimo compito della formulazione appartiene, nella Chiesa, al Legislatore, che è inequivocabilmente e chiaramente individuabile: la suprema Autorità, per le leggi universali. Questo dato è tutt’altro che irrilevante, poiché il supremo Legislatore è anche e sempre il successore dell’Apostolo Pietro, al quale Cristo ha affidato la custodia dell’intero Suo gregge, nella triplice attestazione del compito ministeriale, seguente la triplice attestazione di fedeltà: «Mi ami tu?… Pasci le mie pecorelle» (Gv 21,15ss.).

         Mi piace vedere in questa espressione e in questa unità tra supremo Pastore e supremo Legislatore, il luminoso, imprescindibile superamento di ogni possibile dicotomia tra aspetto meramente giuridico e ministero pastorale. Il supremo Legislatore è supremo Legislatore proprio perché Pastore universale. Il pastore universale non potrebbe esercitare il proprio ministero prescindendo dalla giustizia, veicolata dal Diritto.

         Su questo ultimo aspetto, la giustizia, è utile soffermarsi un istante. La corretta regolazione dei rapporti inter-umani alla luce della giustizia è il fine del diritto; o, se si preferisce, il diritto è al servizio, totalmente al servizio, della giustizia nei rapporti. Sia che si tratti di rapporti meramente orizzontali, umani, sia che si tratti del rapporto con Dio e con la propria salvezza eterna, il Diritto non può non obbedire a criteri di giustizia e, come direbbe Sant’Agostino, una legge ingiusta perde forza di legge.

         In tale ottica, lungi dal configurarsi come una monarchia assoluta e dispotica, il Papato è un servizio che ha in Dio la propria radice ed il proprio autentico significato. In Dio, nel mistero della salvezza realizzata da Cristo e attualizzata dalla Chiesa, e nel compito voluto e affidato dal Risorto a Pietro. La radice, totalmente soprannaturale, del ministero apostolico petrino, il suo compito di confermare i fratelli nella fede, unitamente alla garanzia che le tenebre «non praevalebunt» (Mt 16,18) rappresentano per tutti noi la certezza della verità e della bontà del Diritto Canonico, voluto dalla Chiesa a garanzia della esercitabilità del ministero ad essa affidato, a difesa della propria libertà e, con essa, di quella di tutti i suoi figli e perfino di tutti gli uomini.

         La difesa del Diritto Canonico, sempre e comunque, è necessaria difesa della libertà religiosa, che, come più volte ricordato da San Giovanni Paolo II, è la madre di ogni altra libertà: la libertà di pensiero, di parola, di espressione, di culto si fondano tutte, si incardinano profondamente nella libertà religiosa, che, per la sua apertura al Mistero e all’infinito, è realmente la madre di ogni altra libertà. Per questa ragione, studiare, approfondire, proteggere il Diritto Canonico da ogni umana, estranea ingerenza, significa, ultimamente difendere, proteggere e promuovere l’autentica libertà religiosa e, con essa, la possibilità della salvezza per le anime.

         Contrariamente a quanto potrebbe pensare il mondo, noi dobbiamo gioire per la provvidenziale coincidenza tra supremo Legislatore e supremo Pastore: il Signore ha disposto che la Chiesa vivesse il mistero dell’unità attraverso la comunione effettiva e affettiva con l’Apostolo Pietro ed i suoi legittimi Successori e la promozione, unitamente alla difesa, di tale comunione è il nucleo essenziale del ministero petrino e della conseguente elaborazione normativa che all’esercizio di tale ministero di unità si pone al servizio.

         Per la natura propria del Corpo ecclesiale, che vive nell’ininterrotta Tradizione apostolica e nell’umile e devoto ascolto dello Spirito che in essa ha parlato per duemila anni e che mai può divenire muto, la stessa fase normativa è posta al riparo da ogni possibile umano arbitrio, traendo forza, legittimità e perfino riconoscibilità ecclesiale proprio dall’attenta e prudente comunionalità con la mens dell’intera storia giuridica ecclesiale, che ha sempre e solo avuto come orizzonte ultimo la salvezza delle anime. Per contro, ogniqualvolta – Dio non voglia! –, il diritto universale (o più sovente quello particolare) venisse formalmente elaborato e formulato distaccandosi da tale imprescindibile criterio, non potrebbe che risultarne indebolito e perfino delegittimato, o, per meglio dire, auto-delegittimato.

         Molto più complesso appare, invece, il momento ricettivo ed interpretativo della norma canonica, che è in se stesso praticamente inseparabile dal momento applicativo e che qui distinguiamo per mere ragioni accademiche. Se esso è ampiamente sostenuto dalla medesima Sede Apostolica, attraverso i preposti organismi della Curia Romana, la stessa domanda di “autentica interpretazione”, rivolta alla Sede Apostolica da ogni parte del mondo, da Vescovi e da Vicari giudiziali, nell’esercizio della giustizia, testimonia non solo il desiderio di una giusta applicazione del Diritto, ma, anche e soprattutto, la volontà di una sua corretta comprensione alla luce del vero bene delle anime. Laddove sorgano dubbi circa la corretta interpretazione della norma, non solo è opportuno, ma è perfino doveroso chiedere al supremo Legislatore che cosa intendesse esattamente con quelle parole, per porre al riparo se stessi da ogni arbitraria possibile interpretazione e soprattutto per restare in piena comunione con quanto voluto e perseguito dal Legislatore attraverso la norma. La forza di ogni domanda interpretativa sta nella comune finalità perseguita tra chi deve applicare la norma e chi l’ha formulata: entrambi desiderano unicamente la salvezza delle anime.

         Nella terza ed ultima fase, quella applicativa, svolgono un ruolo determinante i singoli: i Vescovi diocesani e quanti sono loro equiparati dal diritto, unitamente agli operatori in servizio presso i Tribunali ecclesiastici, come il promotore di giustizia e il difensore del vincolo, gli avvocati e i patroni, i giudici, i quali, pur animati dalle migliori personali intenzioni e da autentica fede e pastorale sollecitudine per la salvezza delle anime, sempre possono incorrere in valutazioni perlomeno parziali, non pienamente aderenti a quell’anelito di giustizia, nel quale riverbera la ragione stessa del Diritto.

         Ciò non di meno, ci pare di poter affermare, senza tema di essere contraddetti, che, nonostante tutti i possibili limiti ed obbedendo sempre alla vocazione di un continuo possibile miglioramento, il Diritto Canonico è molto più al riparo da possibili forme di ingiustizia, rispetto ad altre formulazioni giuridiche. Ciò non per l’impeccabilità di chi lo amministra, ovviamente, né tanto meno per l’infallibilità di chi lo formula (l’infallibilità è garantita in circostanze molto precise, nelle quali non ricade l’esperienza normativa ecclesiale), ma per il costante, luminoso e ostinato orizzonte soprannaturale, che guarda al vero bene e alla salvezza eterna soprannaturale delle persone; salvezza che si realizza nell’appartenenza all’unica Chiesa militante, purgante e trionfante e, in particolare, nella forza trascinatrice della Chiesa trionfante rispetto alla fatica, talora eroica, della Chiesa militante.

         Se errori, limiti, peccati e perfino palesi ingiustizie possono verificarsi anche all’interno dell’amministrazione del Diritto Canonico, essi non saranno mai autentica espressione della dimensione giuridica della pastorale della Chiesa; ne saranno piuttosto realizzazione parziale o perfino palese contraddizione e, perciò, potente richiamo alla conversione per tutti i fattori coinvolti, per tutti i protagonisti personali e/o istituzionali, nei quali la luce della salvezza, ecclesialmente mediata e giuridicamente normata come cammino, non è stata lasciata rifulgere adeguatamente.

         In tal senso, tutti aneliamo ad una Chiesa senza più l’esigenza del Diritto Canonico, che è la Chiesa trionfante. Ciò non di meno, mi è caro ricordare in questa circostanza che, ad esempio, la stessa procedura per le Cause dei Santi ha una propria elaborazione giuridico-normativa e, come è noto, la canonizzazione dei fratelli e delle sorelle che ci hanno preceduto in Paradiso attiene al supremo Legislatore e ha precisi connotati anche di tipo giuridico, soprattutto rispetto al Diritto liturgico.

 

3. Suprema lex nella declinazione esperienziale del Diritto Canonico

         Contrariamente ai secoli passati, attualmente la Chiesa non ha strumenti umani di coercizione a rispetto del Diritto. Se ciò può apparire una debolezza, in realtà tale condizione rappresenta anche la grande forza del Diritto Canonico. Esso si fonda, non solo nella sua originale formulazione, ma anche e forse soprattutto nella sua esistenziale, quotidiana declinazione esperienziale, sull’esercizio della libertà umana al cospetto di Dio, di Gesù Cristo Salvatore, sotto la guida dello Spirito Santo, per il bene della Chiesa e dell’umanità intera.

         Prescindendo da tale orizzonte e contesto soprannaturale, sono del tutto inconcepibili l’esercizio del Diritto Canonico e la sua concreta attuazione. Se è vero che ci sono talune espressioni giuridiche che, attraverso gli accordi con i vari Stati, hanno gravi conseguenze pratiche (penso per esempio alla invalidità dell’alienazione dei beni ecclesiastici senza la debita autorizzazione della Sede Apostolica, che genera l’invalidità dell’atto di compravendita anche in foro civile), è altrettanto vero che, nella maggior parte dei casi, l’efficacia applicativa della norma trova il suo fondamento nella libertà dei soggetti coinvolti e nella loro personale adesione all’annuncio evangelico. In tal modo, è ribadito, anche nelle declinazioni esperienziali dell’esercizio del Diritto, come il primato appartenga alla salus animarum, unico reale orizzonte di vita del Diritto Canonico.

         Due esempi possiamo fare di tale orizzonte soprannaturale delle declinazioni esperienziali del Diritto: lo stesso can. 1752, che esplicitamente parla di lex suprema rispetto al procedimento amministrativo di trasferimento del parroco, e più in generale le varie norme penali contenute nel Libro VI del Codice, recentemente riformato.

         Nel primo caso, emerge chiaramente come, a fronte del diritto esercitato dal Vescovo di nominare i Parroci e del diritto del Parroco di esercitare il proprio ministero in un dato luogo e in determinate circostanze, l’opzione della norma, senza di per sé violare i predetti, legittimi diritti, faccia prevalere la globalità della salvezza delle anime – salus animarum –, permettendo il trasferimento del Parroco nel caso il suo ministero, pur utile in quella comunità, sia più utile in un’altra o in altro ufficio. L’orizzonte ampio della salus animarum stimola e determina, dunque, sia l’esercizio del diritto del Vescovo, sia l’esercizio del diritto del Presbitero, sia, non da ultimo, il diritto della comunità stessa. Tutte le parti attengono all’unico Corpo ecclesiale, pur con funzioni diverse e con personalità giuridiche diverse, e in esso tutto concorre al bene supremo, a cui, giustamente, è conforme la legge suprema: la salvezza.

         Una tale interpretazione del Diritto, animata dalla personale, motivata e convinta libertà di adesione al bene, ne garantisce la stabilità, l’accoglibilità, la ragionevolezza e, ultimamente, l’efficacia. Nessuna norma è tanto efficace, quanto quella che viene liberamente compresa, accolta e tradotta in essere.

         Un altro esempio – dicevamo – è quello rappresentato dal Libro VI del Codice, laddove si tratta delle pene inflitte dal Diritto e delle ragioni legate a tali pene. Se appare sempre drammatico e doloroso dover infliggere delle pene a fratelli o sorelle, battezzati o consacrati, e perfino ad ecclesiastici, che si siano macchiati di un qualche crimine, appare altresì chiaro come il fine dell’intero Libro VI non sia, in alcun caso, puramente punitivo o financo persecutorio, ma sempre e solo “curativo”. Le pene ecclesiastiche hanno sempre come triplice scopo «la riparazione dello scandalo, il ristabilimento della giustizia e l’emendamento del reo» (cf. can. 1341 CIC), perché questi «si converta e viva» (Ez 18,23), obbedendo così alla legge suprema, che anima e deve animare anche la parte più faticosa e dolorosa del Diritto. Tutti e tre gli elementi previsti dal Codice, sia la riparazione dello scandalo, sia il ripristino della giustizia, sia l’emendamento del reo costituiscono parti ineliminabili del perseguimento della suprema lex, senza le quali potrebbe essere ostacolato l’annuncio del Vangelo e il suo concreto accoglimento. In una situazione di ingiustizia o di scandalo, diviene quasi impossibile l’annuncio evangelico senza rimuovere tali ostacoli e possibilmente rimuoverne le cause.

         Quand’anche, poi, la punizione giungesse alla drammaticità di un cambiamento dello stato di vita giuridico del fedele (per esempio, quando si giungesse alla dimissione dallo stato clericale per un ecclesiastico di qualunque grado), esso sarebbe sempre per il suo vero bene, per la sua reale conversione, valutando attentamente e prudentemente anche lo scandalo che una tale pena può avere tra i fedeli laici battezzati e la loro fiducia nella gerarchia ecclesiastica.

         Da questo punto di vista, il Diritto Canonico si erge, quasi unico rispetto a tutti gli altri ordinamenti giuridici, che hanno sempre ancora una dimensione punitiva; questa, anche se giuridicamente non sempre sancita, di fatto si concretizza nell’inefficacia dell’azione rieducativa, come riscontrabile nella maggior parte dei sistemi detentivi. Per la società civile, la pena massima è la privazione di ogni libertà e, antropologicamente parlando, all’interno di tale pena massima, esiste ancora un ulteriore aggravamento di pena, quando ad essa si aggiunge l’isolamento, che è contrario alla natura stessa dell’essere umano, essere sociale e dialogico per creazione. Non è un caso se ormai non pochi ordinamenti prevedano il divieto dell’isolamento prolungato in carcere, proprio per le conseguenze psicologiche e psichiatriche che esso può determinare.

         Le pene previste dal Diritto Canonico hanno come orizzonte il ripristino pieno della giustizia, il risanamento dell’eventuale scandalo e l’emendamento, la salvezza del reo; quindi hanno come orizzonte non una privazione vendicativa, fine a se stessa, ma la salvezza integrale ed autentica sia del reo, sia di tutti coloro che sono stati coinvolti “dalle” o “nelle” sue azioni. Tale differenza di orizzonte determina e qualifica la differenza tra il Diritto Canonico ed ogni altro legittimo ordinamento. Potremmo dire che dal Diritto Canonico non pochi ordinamenti potrebbero apprendere molto.

         Un ultimo breve cenno di tale sollecitudine del Diritto per la salvezza integrale della persona, lo possiamo individuare nel tanto vituperato quanto fondamentale istituto della dispensa; istituto che, molto limitato negli altri ordinamenti, è invece ampiamente presente nel Diritto Canonico; ciò non perché qualcuno possa essere esonerato dall’obbedienza alla legge, ma perché, in casi specifici, anch’essi normati dal Diritto o individuati da chi è chiamato ad amministrarlo, è possibile, per la salvezza delle anime o della singola persona, essere dispensati da un obbligo, se ciò giova ad un fine più alto.

         Il tempo a nostra disposizione non permette di approfondire l’istituto della dispensa e le sue ragioni (e non sarebbe questa la sede né il tema assegnatomi); tuttavia è fuori dubbio che esso rappresenti uno dei modi nei quali il Diritto Canonico esercita la lex suprema.

         Desidero terminare queste mie riflessioni con un auspicio, rivolto anche – e forse soprattutto – a coloro che pongono in contrapposizione la dimensione pastorale con quella giuridica della Chiesa, quasi che l’una possa sussistere senza l’altra, quasi misconoscendo il valore pastorale della giustizia nei rapporti inter-personali e intra-ecclesiali. Se la cosiddetta pastorale, i convegni pastorali e le esortazioni pastorali avessero come orizzonte, sempre e solo, la salus animarum come accade per il Diritto, che in essa riconosce la propria lex suprema, forse potrebbero essere più utili e giovare più efficacemente al vero bene della Chiesa e dei singoli fedeli; bene per il quale studiate e vi preparate, per il quale tutti ci sacrifichiamo, per il quale tutti ci impegniamo appassionatamente.

         Maria, Speculum Iustitiae e Mater Misericordiae ci renda operai umili e fervorosi nel cooperare alla realizzazione della suprema lex della Chiesa, la salus animarum!