DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL XXXII CORSO SUL FORO INTERNO

Aula Paolo VI, Venerdì 25 marzo 2022

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Cari fratelli, buongiorno e benvenuti!

Sono lieto di incontrarvi in occasione dell’annuale Corso sul Foro Interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica e giunto alla sua trentaduesima edizione. Sono costanti questi, sono costanti. Complimenti!

Saluto il Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, e lo ringrazio di cuore per le sue parole di introduzione. Saluto il Reggente, i Prelati, gli Officiali e il Personale della Penitenzieria, i Collegi dei Penitenzieri ordinari e straordinari delle Basiliche Papali in Urbe, e tutti voi, partecipanti al Corso, davvero numerosi: circa ottocento chierici! Questo è un buon segno, perché oggi una mentalità diffusa stenta a comprendere la dimensione soprannaturale, o persino vorrebbe negarla. Sempre, sempre la tentazione di ridurle. La Confessione è un dialogo. E il dialogo non si può ridurre a tre o quattro consigli psicologici per andare avanti, questo è togliere al Sacramento l’essenziale del Sacramento.

Può far bene, non solo a voi, ma a tutti i sacerdoti confessori, magari approfittando del tempo quaresimale, rileggere e meditare la Nota sul foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale, pubblicata dalla Penitenzieria Apostolica nel 2019. Essa tocca aspetti di grande attualità, e soprattutto ci aiuta a riscoprire quanto sia prezioso e necessario, anche ai nostri giorni, il ministero della Riconciliazione, che rende visibile e realizza la misericordia di Dio, la realizza.

In una recente intervista, con un’espressione inconsueta, ho affermato che “il perdono è un diritto umano”. Noi abbiamo tutti il diritto di essere perdonati. Tutti. In effetti, esso è ciò a cui più profondamente anela il cuore di ogni uomo, perché, in fondo, essere perdonati significa essere amati per quello che siamo, malgrado i nostri limiti e i nostri peccati. E il perdono è un “diritto” nel senso che Dio, nel mistero pasquale di Cristo, lo ha donato in modo totale e irreversibile ad ogni uomo disponibile ad accoglierlo, con cuore umile e pentito. Dispensando generosamente il perdono di Dio, noi confessori collaboriamo alla guarigione degli uomini e del mondo; cooperiamo alla realizzazione di quell’amore e di quella pace a cui ogni cuore umano anela tanto intensamente; con il perdono contribuiamo, permettetemi la parola, a una “ecologia” spirituale del mondo.

Vorrei offrirvi alcuni spunti di riflessione e revisione di vita intorno a tre parole-chiave: accoglienzaascolto e accompagnamento. Accoglienza, ascolto e accompagnamento. Tre dimensioni essenziali del ministero del confessore; tre facce dell’amore, alle quali va aggiunta la gioia, che sempre lo accompagna.

L’accoglienza dev’essere la prima caratteristica del confessore. È quella che aiuta il penitente ad accostarsi al Sacramento con lo spirito giusto, a non stare ripiegato su sé stesso e il proprio peccato, ma ad aprirsi alla paternità di Dio, al dono della Grazia. L’accoglienza è la misura della carità pastorale, che avete maturato nel cammino di formazione al sacerdozio ed è ricca di frutti sia per il penitente sia per lo stesso confessore, che vive la sua paternità, come il padre del figlio prodigo, pieno di gioia per il ritorno del figlio. Abbiamo noi questa accoglienza e questa gioia? La serenità di un confessore che sa accogliere, di giorno o alla sera: “Accomodati”, e lascia parlare. Creare il clima di pace, anche di gioia.

Il secondo elemento è l’ascolto. Ascoltare – lo sappiamo – è più che udire. Richiede una disposizione interiore fatta di attenzione, di disponibilità, di pazienza. Si devono lasciare i propri pensieri, i propri schemi, per aprire davvero la mente e il cuore all’ascolto. Se, mentre l’altro parla, tu stai già pensando a cosa dire, a cosa rispondere, allora tu non stai ascoltando lui o lei, ma te stesso. È un brutto vizio questo: il confessore che ascolta sé stesso: “Cosa dirò?”. Lui esce purificato, ma tu? Esci peccatore, perché non compi il tuo servizio di ascoltare per perdonare. In alcune confessioni, non si deve dire nulla o quasi – intendo come consiglio o esortazione –, ma solo si deve ascoltare e perdonare. L’ascolto è una forma di amore che fa sentire l’altro davvero amato.

E un’altra cosa vorrei dire dell’ascolto: per favore, togliere ogni curiosità. A volte ci sono dei penitenti che si vergognano di quello che stanno dicendo, non sanno come dire, ma fanno un cenno. Il Penitenziere Maggiore ci ha insegnato una cosa buona: quando capiamo la cosa, dire: “Ho capito, vai avanti, un’altra cosa…”. Risparmiare il dolore di dire le cose che non sanno come dire, e non cadere nella curiosità di chiedere: “E come è stato? E quante volte?” Per favore! Non sei un torturatore, sei un padre amorevole. La curiosità è del diavolo. “No, io devo conoscere per valutare se perdono…”. Se Gesù ti trattasse così!

E quante volte la confessione del penitente diventa anche esame di coscienza per il confessore! A me è successo. Anche a voi, ne sono sicuro. Di fronte a certe anime fedeli, ci viene da chiederci: ho io questa coscienza di Gesù Cristo vivo? Ho questa carità verso gli altri? Questa capacità di mettermi in discussione? L’ascolto implica una sorta di svuotamento: svuotarmi del mio io per accogliere l’altro. È un atto di fede nella potenza di Dio e nel compito che il Signore ci ha affidato. Solo per fede i fratelli e le sorelle aprono al confessore il loro cuore; quindi, hanno il diritto di essere ascoltati con fede, e con quella carità che il Padre riserva ai figli. E questo genera gioia!

La terza parola-chiave è accompagnamento. Il confessore non decide al posto del fedele, non è il padrone della coscienza dell’altro. Il confessore, semplicemente, accompagna, con tutta la prudenza, il discernimento e la carità di cui è capace, al riconoscimento della verità e della volontà di Dio nella concreta esperienza del penitente. A volte dire una o due parole, ma giuste, e non fare un’omelia domenicale. Il penitente vuole andarsene il più presto possibile, si capisce questo. Dire il giusto per accompagnarlo, sempre. È sempre necessario distinguere il colloquio della confessione vera e propria, vincolato dal sigillo, dal dialogo di accompagnamento spirituale, riservato anch’esso, seppure in forma differente.

E su questo vorrei chiarire una cosa. Ho capito che in qualche gruppo, in qualche associazione, sta entrando una relativizzazione del sigillo sacramentale. Per esempio, si dice: il sigillo è il peccato, ma poi tutto quello che viene dopo il peccato o prima del peccato, tu puoi dirlo. No! E ci sono alcuni gruppi che sostengono questo; e poi il confessore dice ai superiori le altre cose. No. Il sigillo è dal momento in cui si comincia al momento della fine. Ma se a metà avete parlato di quella cosa…? Niente, tutto è sotto sigillo. Per essere sicuro su questo, voglio che i confessori siano tutti specialisti dell’ascolto. E se è uscita una cosa che anche il penitente vorrebbe che si sapesse? Bisogna domandare il permesso su quello che mi hai detto in confessione: “Dimmelo di nuovo o dimmi se posso parlarne”. Essere chiari. Alcuni teologi possono dire: “Ma non è così la cosa, è più larga”. È dottrina comune – almeno in questo Pontificato! – che il sigillo va dal momento iniziale alla fine. E questa è la dottrina da seguire, senza entrare in queste sfumature “da qui fin là”, che poi servono a governare male.

Il confessore ha sempre come obiettivo l’universale chiamata alla santità (cfr Lumen gentium, 39-42), e accompagnare discretamente ad essa. Accompagnare vuol dire prendersi cura dell’altro, camminare insieme a lui o a lei. Non basta indicare una meta, se poi non si è disposti a fare nemmeno un tratto di strada insieme. Per quanto breve possa essere il colloquio della confessione, da pochi dettagli si comprende già quali siano i bisogni del fratello o della sorella: ad essi siamo chiamati a rispondere, accompagnando soprattutto alla comprensione e all’accoglienza della volontà di Dio, che è sempre la via del bene più grande, la via della gioia e della pace.

Cari fratelli, ringrazio il Signore con voi per il ministero che svolgete, o che presto vi verrà affidato – perché ci sono dei diaconi qui –, ministero al servizio della santificazione del Popolo fedele di Dio. E anche voi, per favore, confessatevi. Voi andate a chiedere il perdono dei vostri peccati, non è vero? È molto salutare questo. Fa bene a noi confessori farlo. Mi raccomando: abitate volentieri il confessionale, accogliete, ascoltate, accompagnate, sapendo che tutti, ma proprio tutti hanno bisogno del perdono, cioè di sentire di essere amati come figli da Dio Padre. Le parole che pronunciamo: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”, significano anche “tu, fratello, sorella, sei prezioso, sei preziosa per Dio; è un bene che tu ci sia”. E questa è una potentissima medicina per l’anima, e anche per la psiche di tutti.

E vorrei tornare su un dettaglio che ho già accennato prima. Due testimonianze. Il dettaglio l’ho detto a proposito della difficoltà di dire i peccati, per cui il penitente ne dice una piccola parte, ma noi capiamo che la cosa è più grande. Allora bisogna fermare, non torturare il penitente: “Ho capito, vai avanti”. “Ma io devo, sono giudice, devo giudicare”. Hai capito? Perdona quello che hai capito. Punto. A volte è vero che è un giudizio, ma di misericordia. È bella un’opera pop che hanno fatto tre-quattro anni fa, uno di quei gruppi di musicisti dei giovani di oggi, con questa musica che io non capisco, ma dicono che è bella. È un’opera sulla Parabola del figlio prodigo. Dopo tutta la storia, nella parte finale, il figlio, poveretto, già sporcato da tanti peccati, da tante cose, anche sconfitto da tutte quelle cose, sente il bisogno di tornare al Padre e dice a un amico: “Ma io non so se mio padre mi riceverà…”. E cantano questo: “Mi riceverà? mi riceverà?…”. L’amico dà un consiglio: “Manda una lettera a tuo padre e dì: Papà, io voglio pentirmi e dirtelo in faccia, ma ho paura di venire da te, se tu sarai capace di ricevermi o no… Io voglio venire solo per chiedere perdono, non merito di chiamarmi figlio tuo, soltanto per questo”. E seguendo il consiglio dell’amico scrisse questo: “Se tu sei disposto a questo, per favore, metti alla finestra un fazzoletto bianco, così, quando io mi avvicino a casa, vedrò il fazzoletto e verrò. Se non vedo il fazzoletto torno indietro”. Continua l’opera e poi l’ultimo atto è quando il figlio entra sulla strada che porta alla casa. Guarda la casa: è tutta piena di fazzoletti bianchi, tutta piena! Cioè la Misericordia di Dio non ha limiti. La misericordia di un confessore lo stesso. Pensate ai fazzoletti bianchi! È bello questo, a me è piaciuto.

Poi, due testimonianze di due confessori che io ho conosciuto. Uno, bravo, un sacramentino, un bravo ragazzo, è morto a 92 anni! Era il confessore di tutto il clero di Buenos Aires. Tutti andavano da lui, tanti laici… Era così. Un grande confessore. Anche da provinciale – è stato provinciale del suo Ordine – sempre trovava posto in quella basilica dove lui abitava, per confessare. Io, quando sono stato provinciale, andavo a confessarmi da lui - per non confessarmi con un gesuita, perché non sapessero le cose -; sempre diceva: “Va bene, va bene… Coraggio, avanti!”. E ti perdonava. Una domenica di Pasqua – ero già vicario generale – sono sceso alla segreteria per vedere se c’era qualche fax – a quel tempo non c’era ancora l’e-mail –, ho visto un fax delle 23.30, proprio prima di cominciare la Veglia Pasquale: “Alle 20.30 è morto padre Aristi a 93 anni di età”. Avevo l’abitudine di andare a pranzo con i sacerdoti della casa di riposo, a Pasqua e a Natale, e ho pensato: dopo il pranzo andrò lì. E così ho fatto. Entro nella basilica, non c’era nessuno, c’era la bara aperta. Due vecchiette lì che pregavano il Rosario. Mi sono avvicinato alla bara. Nessun fiore. “Ma tu che hai perdonato i peccati di tutti… Così?”. Sono uscito, sono andato sulla strada, ci sono dei fioristi, ho comprato i fiori, sono tornato. E quando stavo sistemando i fiori, ho visto il Rosario e ho avuto una grande tentazione e sono caduto: gli ho rubato il Crocifisso del Rosario. Se ne è andato senza Crocifisso. In quel momento dissi: “Dammi la metà della tua misericordia”, pensando a Elia ed Eliseo e a tutta quella storia. Gli ho chiesto quella grazia. E quella croce la porto qui dentro, sempre con me, e chiedo al Signore che mi dia misericordia. Vorrei condividere questo.

L’altro, è un cappuccino, 96 anni adesso, un gran confessore. Continua a farlo! È al Santuario della Madonna di Pompei a Buenos Aires. Sempre la coda davanti al confessionale: laici, laiche, preti, vescovi, suore, giovani, vecchi, poveri, ricchi, tutti. Un vero fiume di gente. E quest’uomo è venuto a trovarmi qui, all’inizio del Pontificato, perché aveva un convegno. Quest’uomo, quando ero arcivescovo, aveva a quel tempo 86-87 anni, è venuto da me e mi ha detto: “Toglimi questa tortura che ho” – “Perché?” – “Ma tu sai io perdono sempre, io perdono tutto, io perdono troppo” – “Per questo la gente ti cerca” – “Sì, ma a volte sento lo scrupolo” – “E dimmi, cosa fai quando senti lo scrupolo di aver perdonato troppo?” – “Io vado in cappella e chiedo al Signore perdono e dico: ‘Signore scusami, oggi ho perdonato troppo. Ma subito sento qualcosa dentro: ‘Ma stai attento Signore, perché sei stato Tu a darmi il cattivo esempio’”.

Queste sono testimonianze di grandi confessori. Ho trovato il Superiore generale dei cappuccini, alcuni mesi fa, e mi ha detto: “Mi dica Santo Padre, se Lei ha bisogno io porto qui il suo amico confessore”. Come si sa, anche il Papa ha bisogno di essere perdonato di cose brutte che non riesce a dire agli altri. Una bella cosa, una bella testimonianza. Avete davanti la testimonianza dei grandi confessori, di questi che sanno perdonare bene con senso di Chiesa, con giustizia, ma con grande amore. Con grande amore.

Si avvicina il Giubileo del 2025. Colgo questa occasione per invitare fin da ora la Penitenzieria, alla cui cura è affidato, per così dire, il “nucleo profondo” di ogni Giubileo, a disporre, in accordo con gli altri organi interessati, quanto necessario perché sia il più fruttuoso possibile il prossimo Anno Santo. E incoraggio voi a utilizzare tutta la creatività che lo Spirito suggerisce, perché la misericordia di Dio possa giungere ovunque e a tutti: perdono e indulgenza!

E grazie per il vostro servizio alla divina Misericordia, sotto la dolce protezione di Maria Rifugio dei peccatori. Lei è Madre, e Lei sempre cerca di salvare i figli. Quando voi avrete qualche dubbio, pensate alla Mamma, come dice quella leggenda del paese della cosiddetta “Madonna dei Mandarini”, soprannominata anche patrona dei ladri. Nel sud Italia c’è una leggenda sul fatto che la Madonna perdona tutto, e che se loro pregano la Madonna, Lei li salverà. E si dice che la Madonna dalla finestra guarda la coda che c’è davanti alla porta del Paradiso. E San Pietro giudica chi entra e chi non entra. E quando la Madonna scopre uno di questi suoi devoti, gli fa segno di nascondersi, perché San Pietro sicuramente non lo lascerà entrare. E poi quando, più tardi, comincia il buio, prima della notte, la Madonna li fa entrare dalla finestra. Pregate la Madonna perché vi dia questo cuore paterno e anche materno, per perdonare e integrare nella Chiesa la gente. Lei è il rifugio dei peccatori.

Vi benedico tutti di cuore. E per favore, ricordatevi di pregare anche per me, perché oggi devo confessarmi anch’io. Grazie!