Intervista di monsignor Krzysztof Nykiel con Nicola Gori, 11 marzo 2017
È terminato l’anno santo della misericordia, ma per i cristiani che si accostano al sacramento della confessione ogni giorno è un nuovo “giubileo” nel quale si può sperimentare la gioia del perdono di Dio. Lo ricorda sua eccellenza monsignor Krzysztof Nykiel, reggente della Penitenzieria apostolica, in questa intervista all’Osservatore Romano alla vigilia dell’annuale corso sul foro interno, in programma dal 14 al 17 marzo, nella quale traccia una sorta di identikit del confessore.
Da ventisette anni la Penitenzieria apostolica durante la quaresima organizza questo appuntamento dedicato al sacramento della riconciliazione. Perché è così importante la confessione per la vita della Chiesa?
In forza del mandato che il Risorto ha dato ai suoi discepoli — «a chi rimetterete i peccati saranno rimessi» — la Chiesa fin dalle origini ha sempre proclamato la buona notizia che «Dio è ricco di misericordia» e, perciò, «ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito perché il mondo si salvi per mezzo di lui». La remissione dei peccati è la missione principale della Chiesa nel mondo. A tutti abbiamo il dovere di ripetere con san Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio». La Chiesa, infatti, deve ricordare innanzitutto a se stessa e agli uomini del nostro tempo che alle sorgenti della sua missione di riconciliazione si trova la volontà di Dio che tutti si salvino e giungano alla felicità eterna. Dio ha creato gli uomini affinché vivano nella sua amicizia e in comunione fraterna fra di loro. La confessione è, allora, importante perché è il sacramento che ristabilisce la nostra amicizia con Dio ogni qualvolta il peccato ci allontana da lui e ci separa dal suo amore misericordioso. La confessione è indispensabile se vogliamo davvero sperimentare la gioia di sentirci amati da Dio, perdonati da lui, circondati e protetti dal suo abbraccio, come narrato nella parabola del padre misericordioso che «fa festa e si rallegra» quando può finalmente riabbracciare suo figlio che ritorna pentito ma fiducioso che sarebbe stato riaccolto nella sua casa.
Quali devono essere le doti di un buon confessore?
Personalmente ritengo che ogni sacerdote, nell’atto di amministrare il sacramento del perdono, non possa prescindere da quelle richieste ben precise avanzate da Papa Francesco nella lettera apostolica Misericordia et misera al numero dieci: «Vi chiedo di essere accoglienti con tutti; testimoni della tenerezza paterna nonostante la gravità del peccato; solleciti nell’aiutare a riflettere sul male commesso; chiari nel presentare i principi morali; disponibili ad accompagnare i fedeli nel percorso penitenziale, mantenendo il loro passo con pazienza; lungimiranti nel discernimento di ogni singolo caso; generosi nel dispensare il perdono di Dio. Come Gesù davanti alla donna adultera scelse di rimanere in silenzio per salvarla dalla condanna a morte, così anche il sacerdote nel confessionale sia magnanimo di cuore, sapendo che ogni penitente lo richiama alla sua stessa condizione personale: peccatore, ma ministro di misericordia». A me sembra che i diversi aspetti evidenziati in questa espressione rappresentino un vero e chiaro percorso di accompagnamento spirituale dei fedeli all’incontro con la misericordia di Dio, ma ancora più specificamente indichino le diverse e significative tappe di un processo educativo al sacramento della riconciliazione, al quale ogni confessore deve permanentemente riferirsi. Per questo motivo Papa Francesco invita sempre i sacerdoti confessori a non sentirsi padroni del sacramento del perdono, bensì suoi servi e fedeli amministratori, accogliendo i fedeli come il padre nella parabola del figlio prodigo. Un padre che attende, va incontro, stringe, perdona, dimentica e ristabilisce; un padre che sa intercettare, dal cuore dell’altro, l’invocazione di aiuto e di perdono.
di Nicola Gori
L'Osservatore Romano, 11 marzo 2017